Tasso di sostituzione

Il tasso di sostituzione rappresenta il rapporto percentuale tra l’importo del primo rateo pensionistico e l’ultimo stipendio o reddito percepito prima del pensionamento. Questo indicatore misura la copertura pensionistica garantita ai lavoratori dal sistema previdenziale pubblico e privato, fornendo un’indicazione su quanto il tenore di vita durante la vita attiva possa essere mantenuto in vecchiaia.

Negli ultimi decenni, a causa delle riforme previdenziali come la Riforma Dini e la Riforma Fornero, il tasso di sostituzione garantito dal sistema pensionistico pubblico obbligatorio è diminuito. Ciò ha generato incertezza sul futuro dei giovani lavoratori, che sono maggiormente interessati dal passaggio al sistema contributivo. In teoria, questo divario dovrebbe essere colmato dalla previdenza complementare, conosciuta come secondo pilastro, ma attualmente questa forma di previdenza deve ancora decollare e diventare più attraente, specialmente dal punto di vista fiscale.

Prima della Riforma Dini del 1995, il sistema pensionistico retributivo garantiva un reddito pensionistico fino all’80% degli ultimi stipendi percepiti prima della cessazione del servizio, con 40 anni di contributi e un’aliquota di rendimento del 2% per ogni anno di contribuzione. Questo sistema garantiva un elevato tasso di sostituzione, ma nel tempo si è rivelato insostenibile dal punto di vista finanziario. Invece, il sistema contributivo introdotto a partire dal 1° gennaio 1996 ha ancorato il valore dell’assegno pensionistico a tre fattori: l’entità dei contributi versati annualmente, l’andamento del prodotto interno lordo e l’età di pensionamento. Più l’uscita dal lavoro viene posticipata, maggiore sarà l’assegno pensionistico, poiché si riducono gli anni di corresponsione delle somme.

Il sistema contributivo favorisce quindi coloro che hanno carriere lavorative lunghe, con retribuzioni stabili nel tempo, poiché prende in considerazione tutti i contributi versati. Al contrario, penalizza coloro che hanno affrontato lunghi periodi di disoccupazione, lavoratori autonomi e coloro che si pensionano a un’età particolarmente giovane, poiché non consente loro di recuperare gli anni con retribuzioni basse attraverso un aumento dello stipendio negli ultimi anni di lavoro. Questa penalizzazione è ulteriormente accentuata dalla soppressione dell’integrazione al trattamento minimo per chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 31 dicembre 1995. Solo ora, a distanza di oltre 20 anni dalla Riforma Dini, si cominciano a comprendere gli effetti di queste dinamiche. Pertanto, si sta sempre più discutendo di un sistema di pensione di garanzia finanziato dalla fiscalità generale per i giovani che non riusciranno ad accedere a un reddito minimo. 

Questo è un segno evidente del parziale fallimento della Riforma Dini, che non ha tenuto conto del mercato del lavoro attuale caratterizzato da periodi di disoccupazione più lunghi, lavori precari e in nero. Le conseguenze di queste riforme si riflettono nei tassi di sostituzione pensionistica.

Secondo una tavola elaborata dalla Ragioneria generale dello Stato, il tasso di sostituzione all’età di vecchiaia (66 anni e 7 mesi) passerà dall’80% al 74% dell’ultimo stipendio percepito per coloro che hanno raggiunto le massime anzianità contributive.

 Dopo il 2035, il tasso scenderà al 71% principalmente a causa del passaggio dal pensionamento di vecchiaia del regime misto a quello anticipato del regime contributivo. Per garantirsi una pensione pari almeno al 70% dell’ultima retribuzione, soglia minima accettabile, saranno necessari molti più anni di contributi rispetto al passato.

Per un lavoratore dipendente, ad esempio, sarà necessario accumulare oltre 42 anni di contributi per ottenere tale livello di tasso di sostituzione, mentre nel sistema retributivo bastavano 40 anni per ottenere l’80% dell’ultimo reddito. Per gli autonomi, la situazione sarà ancora peggiore, poiché l’aliquota di computo, cioè quella che traduce il reddito annuo in pensione, è molto più bassa (24% rispetto al 33% dei lavoratori dipendenti), risultando in una pensione inferiore. Quindi, un commerciante con 40 anni di contributi a regime potrebbe contare su una pensione poco superiore al 50% dell’ultimo reddito percepito, rispetto all’80% del sistema retributivo. Anche lavorando due anni in più, il tasso di sostituzione non raggiungerebbe nemmeno il 60%.

Questi sono solo alcuni degli effetti delle riforme pensionistiche e dei cambiamenti nel sistema previdenziale, che hanno portato a una riduzione del tasso di sostituzione pensionistica e a una maggiore complessità nel garantire un’adeguata copertura previdenziale per i lavoratori. È importante valutare attentamente le implicazioni di queste dinamiche al fine di pianificare adeguatamente per il futuro pensionistico.

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